Anche nella nota vulgata che si fa risalire a Montesquieu (L’Esprit des Lois, 1748), secondo la quale le funzioni fondamentali dello Stato (legislativa, esecutiva, giudiziaria) sono distribuite fra distinti apparati generalmente designati col nome di Parlamento, Governo ed Ordine giudiziario, emerge talora una concezione meramente teorica della formula e, talaltra, è dato riscontrarne una più decisamente dottrinale.

Nello specifico, la separazione o bilanciamento (da molti detta anche “divisione”) persegue l’equilibrio istituzionale attraverso una tecnica di frazionamento del potere legale che si ritenga e/o dimostri idonea allo scopo: in questa chiave “separazione” vale come “indipendenza reciproca”.

Va da sé che la divisione dei poteri rimane uno dei principi giuridici fondamentali dello Stato di diritto e della democrazia liberale, tale da connotare in buona parte le stesse democrazie costituzionali,  benché l’idea che l’efficacia della divisione del potere sovrano tra più soggetti per prevenire abusi sia molto antica nella cultura occidentale e risalga all’antica Grecia.

Aristotele, nella Politica, distinse tre momenti nell’attività dello Stato: deliberativo, esecutivo e giudiziario, delineando una forma di governo misto, da lui denominata politìa, fatta propria successivamente anche da Tommaso d’Aquino.

Platone, nel dialogo La Repubblica, parlò di indipendenza del giudice dal potere politico. Polibio, nelle Storie, indicò nella costituzione di Roma antica un esempio di governo misto, in cui il potere era diviso tra istituzioni democratiche (i comizi), aristocratiche (il Senato) e monarchiche (i consoli).

Negli Stati moderni, ed in particolare nei regimi democratici, la funzione legislativa è attribuita al parlamento, nonché eventualmente ai parlamenti degli stati federati o ad analoghi organi di altri enti territoriali dotati di autonomia legislativa, che costituiscono il potere legislativo.

La funzione amministrativa è, invece, attribuita agli organi che compongono il governo e, alle dipendenze di questo, la pubblica amministrazione, i quali costituiscono il potere esecutivo, e si estrinseca mediante l’adozione di atti amministrativi; la funzione giurisdizionale è infine affidata ai giudici che rappresentano il potere giudiziario.

Nonostante la gran parte delle costituzioni mondiali sia ispirata al principio di separazione dei poteri, nondimento la storia ci mostra come l’adozione di tale principio non sempre sia stata sufficiente a scongiurare degenerazioni autoritarie: basti ricordare, al riguardo, l’esempio di Napoleone III in Francia o di Benito Mussolini in Italia che, pur avendo assunto il potere nell’ambito di un sistema costituzionale basato sulla separazione dei poteri, sono poi riusciti a trasformarlo in regime autoritario.

Lo stato autoritario, di tipo nazifascista, rifiuta per contro tout court la separazione dei poteri, contrapponendovi la concentrazione degli stessi nella persona del “capo” (duce, Führer, caudillo ecc.), il quale tende a unire i ruoli di capo dello stato, capo del governo e leader del partito unico nonché ad esercitare direttamente la funzione legislativa (con il parlamento che, laddove sopravvive, si riduce a organo consultivo o di ratifica), mentre anche i giudici perdono la loro indipendenza.

In generale, sono oggi denominati dittature i regimi che, in contrasto con il principio di separazione dei poteri, concentrano gli stessi in un solo organo, monocratico o collegiale, anche se il termine non viene abitualmente impiegato con riferimento alle residue monarchie assolute.

Con l’avvento dello Stato democratico il principio della separazione dei poteri viene profondamente trasformato rispetto alle sue origini, tanto che alcuni studiosi hanno persino dubitato della sua effettiva vigenza nello Stato contemporaneo.

Significativamente, nei primi anni Duemila, il costituzionalista Cassese, con particolare riferimento all’Italia, scriveva che «è dubbio che la divisione dei poteri sia ancora un principio del diritto italiano».

A tale proposito, occorre registrare il significativo aumento dei poteri normativi del Governo a mezzo di Decreti legge, Decreti legislativi, Decreti governativi ecc., la presenza di una legislazione sempre meno generale e astratta nonché l’emergere sulla scena di nuovi organi, come le autorità amministrative indipendenti.

La norma giuridica, infatti, nella teoria generale del diritto, per definizione deve contenere statuizioni di carattere generale ed astratto, rivolte a tutti i consociati.

Va da sé che la legge è il risultato di diverse norme collegate ed autonome tra di loro ma unite da un unico filo logico, o almeno così dovrebbe essere (anche in questo caso la realtà ci pone davanti ad una miriade di Lex satura o leggi-polpettone).

Per contro, il provvedimento amministrativo  (Governo) è l’opposto, ossia una statuizione di carattere concreto espressamente prevista dall’ordinamento (tipicità e nominatività), o meglio una manifestazione di volontà che, in quanto imperativa ed esecutoria, incide unilateralmente sulla situazione giuridica soggettiva del destinatario, producendo effetti giuridici (Barbera, Giannini, Sandulli, Martinez): basti pensare ai bandi di gara, ai permessi di costruire od altri titoli abilitativi, le sanzioni amministrative (le cd. multe dei vigili urbani), allo scrutinio finale del consiglio di classe, ecc.

Nondimeno, se concentriamo l’attenzione sul binomio Parlamento-Governo si nota che l’ evoluzione concreta di tali istituti attesta, come abbiamo detto, un ricorso massiccio alla decretazione d’urgenza, alla delega legislativa, ai regolamenti governativi, ai decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, alle ordinanze ministeriali ecc., tale da spostare de facto l’esercizio della funzione normativa dal Parlamento al Governo, determinando la sovrapposizione tra i due poteri e la condivisione della funzione legislativa (rectius: normativa) tra Parlamento e Governo (M.S. Giannini, Il pubblico potere. Stati e amministrazioni pubbliche, I).

Pr inciso, è interessante notare come nella cultura di massa la stampa viene definita quarto potere, per la sua capacità di influenzare le opinioni e le scelte della popolazione (in particolare, degli elettori) ma anche per il controllo che svolge (o può svolgere) sul potere politico informando la popolazione riguardo alle attività dei suoi detentori.

Il deputato Edmund Burke, nel 1787 durante una seduta della Camera dei Comuni del Parlamento inglese, ispirandosi alla teoria della separazione dei poteri elaborata pochi decenni prima da Montesquieu, esclamò ai cronisti seduti nella tribuna riservata alla stampa: “voi siete il quarto potere!”.

Nello stesso periodo Thomas Jefferson affermava di preferire una stampa senza governo ad un Governo senza stampa (http://oll.libertyfund.org/quote/302).

Sulla stessa scia è stata in seguito coniata in sociologia la locuzione di quinto potere per la televisione e, con lo sviluppo avuto dal Web, di sesto potere per Internet.

È inevitabile che i mezzi di comunicazione di massa, informando la collettività sui comportamenti del governo, del parlamento e dei loro rappresentanti, mettono al corrente il popolo dell’operato degli altri tre poteri della democrazia.

In questi casi il termine potere è usato in senso metaforico, ad colorandum, trattandosi di fenomeni sociali del tutto diversi dai poteri dello Stato, anche se, talora tra metafora e realtà, il passo può essere breve.

 

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